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Italia

Due italiani, Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante, studiarono il manicomio di Sant’Antonio Abate a Teramo, e sin da subito si accorsero di qualcosa di anomalo.

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In mezzo a fotografie, lettere e cartelle cliniche dei pazienti non tutto corrispondeva ad uno standard di pazienti pazzi: c’erano infatti diversi internati, in particolare donne, che erano rinchiuse nel manicomio senza di fatto aver nessun problema di pazzia.

Ma cosa accomunava queste donne non pazze e rinchiuse nei manicomi? Il fatto di risalire tutte principalmente al Ventennio Fascista.

Era questo il periodo in cui la donna era considerata la colonna portante della famiglia e della società. La donna vista come entità da riprodursi più possibile e soddisfare l’uomo.

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Ma cosa succedeva a tutte quelle donne che avevano deciso di ribellarsi contro l’idea di essere considerate degli oggetti di riproduzione e soddisfazione dei bisogni degli uomini? Venivano nella migliore delle ipotesi escluse dalla società ma spesso finiva ancora peggio perchè venivano internate all’interno dei manicomi, dichiarate incapaci di intendere e di volere anche se di fatto non era cosi.

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Le donne che principalmente finivano all’interno dei manicomi erano quelle che venivano considerate delle “madri snaturate”, ovvero quelle che per natura o per uno stato di depressione non erano in grado di riprodursi. Spesso erano proprio le famiglie d’origine che richiedevano di rinchiuderle all’interno dei magazzini nel rispetto (purtroppo) del regime imposto.

In alcune cartelle cliniche come cause per giustificare la chiusura all’interno dei manicomi sono state trovate diciture come “stravagante”, “impulsiva”, “nervosa”. Tutti fattori che oggi fanno parte della nostra quotidianità ma che ai tempi erano considerati “un buon motivo” per rinchiudere le donne all’interno dei manicomi anche se di fatto non avevano nessun disturbo psichico.

Ci sono anche casi di donne che, dopo aver partorito dai 12 ai 14 figli, non riuscivano più a gestire la situazione, a prendersi cura della casa e a badare a tutto (figli e marito compreso), che spesso arrivavano ad esaurimenti nervosi e stati di depressione. Anche per queste la via del manicomio era purtroppo una certezza.

Addirittura anche le donne che avevano avuto dei traumi, e che magari non riuscivano a dormire bene la notte, venivano classificate come donne pazze dalle stasse famiglie d’origine che invece di aiutarle, supportarle e consolarle, pensavano bene di farle rinchiudere.

Tutte donne che passavano anni e anni della propria vita, a volte anche giovani donne rinchiuse per tanti anni nei manicomi, in strutture vecchie, fatiscenti, in mezzo al degrado e all’immondizia.

Donne che con tanta sofferenza, con tanto urlo di dolore, chiedevano alle proprie famiglie di farle uscire da quell’incubo, spesso scrivendo a loro delle lettere piene di sofferenza: lettere che in molti casi venivano rifiutate dai destinatari e tornavano indietro, lettere che furono ritrovate allegate alle cartelle cliniche di queste non pazze.

Fascismo e donne ribelli: rinchiuse In Manicomio anche se non pazze, 5.0 out of 5 based on 1 rating
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