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Veglie (Lecce) – Italia

Che il Salento sia una terra costellata di masserie e da sempre votata all’agricoltura, non è in assoluto una novità. Eppure molte di queste antiche costruzioni raccontano storie che anche la gente locale spesso ignora, e che invece non dovrebbero cadere nell’oblio proprio perché parte del nostro patrimonio storico e del nostro DNA.

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È il caso di Masseria Monteruga e dell’omonimo piccolo centro abitato che intorno ad essa si sviluppò durante il ventennio fascista per poi restare deserto nell’arco di pochi decenni, forse il caso più eclatante di un passato ancora recente ma già dimenticato. Il villaggio rurale di Monteruga, infatti, sebbene sia ancora oggi segnalato dai cartelli stradali lungo la Provinciale 109 che collega San Pancrazio Salentino a Torre Lapillo, può di fatto essere considerato una “città fantasma” in piena regola. Qui dalla metà degli anni Ottanta non ci vive più nessuno e il tempo sembra essersi fermato in questo luogo spettrale e affascinante, che ormai è solo meta di quel fenomeno noto come “turismo dell’abbandono”. Una minuscola e diversa Detroit nel cuore della Terra d’Arneo.

Quest’area della penisola salentina, che si affaccia sul Mar Ionio da San Pietro in Bevagna a Torre dell’Inserraglio estendendosi nell’entroterra fino ai feudi di Manduria, Nardò e Veglie, è stata per lungo tempo una zona infestata da malaria a causa degli acquitrini perenni e delle paludi che caratterizzavano questo tratto di costa. Le opere di bonifica, cominciate già in età giolittiana, proseguirono durante gli anni del fascismo per essere poi completate nel secondo dopoguerra. In particolare, ciò che ridiede nuova vita a queste terre, favorendo ancor di più la loro rinascita agricola, fu la riforma agraria degli anni Cinquanta, che in seguito alle lotte contro il latifondo permise l’espropriazione dei terreni privati e la loro successiva distribuzione ai contadini che le coltivavano.

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Il complesso di leggi varate tra il 1950 e il 1951 e noto come Riforma Fondiaria fu impostato dall’allora Ministro dell’Agricoltura Antonio Segni e dal suo sottosegretario Velio Spano, allo scopo di porre fine al divario tra agrari e contadini senza terre che, andatosi ad aggravare sempre di più, rendeva la situazione economica dell’Italia appena uscita dal conflitto mondiale ancora più difficile. Aumentavano, infatti, i casi di insubordinazione sociale e i braccianti chiedevano insistentemente l’assegnazione di quelle terre che erano mal gestite e mal coltivate dagli agrari. Si decise allora per una vera e propria riforma agraria in alcune regioni e per un più generale intervento di espropriazione sulle restanti.

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Nonostante l’Ente per la Riforma Fondiaria venne costituito con sede nella città di Bari, proprio in Puglia la riforma non venne applicata in modo diretto poiché nessuna località pugliese era stata presa in considerazione dalle sue leggi. La Terra d’Arneo fu allora il focolaio da cui partirono le agitazioni popolari e la mobilitazione politica per l’allargamento della legge Stralcio anche al territorio salentino, che permise infine anche al Salento e alla Puglia di rientrare nel progetto di riforma agraria.

Monteruga nacque come tipico villaggio rurale autosufficiente d’impronta fascista già sul finire degli anni Venti, dopo che nel 1926 la S.E.B.I. (Società Elettrica per Bonifiche e Irrigazione), impresa a partecipazione statale facente capo all’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) e antesignana dell’Enel, ne rilevò la proprietà. Ma fu solo in seguito agli eventi dell’occupazione dell’Arneo e alla svolta permessa dalla riforma agraria che qui si radicò una vera comunità, seppur piccola, di contadini provenienti da più parti dell’entroterra basso salentino e dal Capo di Leuca.

A Monteruga vivevano in media 200 tra agricoltori e coloni, ma arrivava ad ospitare anche 800 persone a seconda delle stagioni e delle colture. A Monteruga c’era tutto: non soltanto il tabacchificio, il frantoio o i magazzini per il vino, ma anche una scuola foresteria, una caserma, l’ufficio del ragioniere e la casa del fattore, una piazza e il campo da bocce, e ovviamente gli appartamenti per i contadini e una piccola chiesa, consacrata a S. Antonio Abate, patrono del borgo.

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A Monteruga si organizzavano attività per il dopolavoro, campi scuola per i bambini, si sono celebrati battesimi e matrimoni come in qualunque altro paesino. Tutte scene di vita quotidiana cancellate in pochi anni, a testimonianza delle quali oggi restano solo tetti semi crollati, calcinacci, infissi sfondati, terra rossa e secca, divieti d’accesso non rispettati e “fabbricati pericolanti”, come recitano i cartelli affissi su quelli che una volta erano invece operosi ambienti di lavoro e case piene di voci.

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Sembra quasi strano il modo in cui tutti questi trascorsi, di un passato breve ma incredibilmente intenso, vissuto e combattuto tra ettari infiniti di ulivi, riaffiori impetuoso nonostante il desolante degrado e lo stato d’abbandono che regna sovrano dal giorno in cui tutto qui è finito e si fermato, e la gente se n’è andata preferendo altri centri urbani in seguito alla privatizzazione dell’azienda che da quel momento cominciò a passare di mano in mano in un triste valzer di responsabilità mancate e inadempienze che continua ancora oggi e non sembra avrà una facile soluzione.

Qui, altre bellissime e suggestive immagini e foto d’epoca che ritraggono i volti e i luoghi del borgo rurale di Monteruga, uno dei villaggi fantasma più belli e suggestivi d’Italia.

Il Villaggio Fantasma del Salento: Monteruga, 5.0 out of 5 based on 1 rating
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